11.06.2011 12:55

Emilio Tadini, György Lukàcs: Saggi sul realismo

E. Tadini, György Lukàcs: Saggi sul realismo, Einaudi, Torino, 1950, in “Inventario”, autunno 1951, a. III, n. 3, pp. 135 – 138

 

Prima di passare a discutere di questa opera critica, certamente di notevole importanza sia per suo intrinseco valore che per il suo collocarsi entro una questione culturale di evidente attualità, importa far notare come nei limiti di una recensione non sia certo possibile non dico risolvere un problema come quello che qui è offerto, ma neppure importalo in modo organico e generale: si potrà solo accennare ad alcune brevi considerazioni che astraggono il meno possibile dal preciso contenuto dell’opera, e ce si propongano al possibile sviluppo di una trattazione più rigorosa.

Cominciando a parlare dell’introduzione, mi sembra che sarebbe stata più utile una maggior chiarezza in quelle che lo stesso L. definisce «osservazioni metodologiche» (p. 31): invece qui l’autore procede con un discorso un po’ disperso mescolando in un modo che riesce faticoso alla lettura, osservazioni di metodo critico non completamente svolte e comunque non svolte secondo una chiara successione di ragionamento, con l’illustrazione dei temi che saranno oggetto dei vari saggi.

Si può facilmente rilevare di quanta grande utilità sarebbe stata una precisa esposizione di metodo, anche se sommaria, ma sorge d’altra parte il dubbio che questa omissione da parte del L. non sia casuale, e che corrisponda ad una non del tutto precisa impostazione teorica della sua critica. Se osserviamo infatti il rapporto che sta alla base della sua critica – il rapporto dialettico tra situazione storica e opera d’arte – come esso è se presente al L. in senso teorico, mi sembra si possa rilevare una notevole manchevolezza. Dal non definire con sufficiente chiarezza entrambi i termini di un rapporto, deriva senza dubbio l’assoluta precarietà del rapporto stesso. Ora, considerando i due termini del rapporto situazione storica – opera d’arte come si configurano nell’impostazione teorica del L. quale essa appare nel volume in questione, bisogna dapprima rilevare che uno di essi è definito in modo sicuro e completo. Per quanto riguarda una definizione del primo termine del rapporto, possiamo vedere chiaramente come la situazione storica sia sempre rigorosamente analizzata e fissata – nell’ambito dell’interpretazione marxista – nel suo articolarsi pratico. Ma se noi spostiamo la nostra attenzione sul secondo termine del rapporto – l’opera d’arte – dobbiamo rilevare come esso non sia mai chiarito con sufficiente penetrazione. (È inteso che non s’intende una definizione astratta dell’essenza dell’opera d’arte ecc. ecc., bensì del modo del suo esistere pratico in quel rapporto).

Quando L. parla di questo «secondo termine», egli usa sempre espressioni piuttosto vaghe e poco significative («carattere estetico», «conseguenze letterarie ed estetiche», «»forme estetiche», «pathos artistico»), senza impegnarsi in un serio tentativo di definizione. (Sia ben chiaro che esigendo questa definizione non si prende una collocazione dell’opera d’arte in una zona sospesa e contrapposta a quella della storia, e che la diversità che si vuole impostare è naturalmente riconducibile a quella di carattere pratico che si delinea nella dialettica del rapporto in questione).

Proseguendo in queste brevi e necessariamente sommarie considerazioni, potremo rilevare che anche l’opera d’arte, come la situazione storica, nel suo porsi come termine di un rapporto, poteva e doveva essere definita secondo una posizione scientifica di attenzione alla sua prassi: e la prassi di un’opera d’arte è il suo modo di organizzarsi in una forma. Soltanto impostando teoricamente questa necessità di critica delle forme si poteva giungere ad una precisa funzionalità del rapporto. Per chiarificare si noti qui la basilare differenza tra questa necessaria «critica delle forme» e al «critica formalistica»: la seconda non è solo diversa dalla prima in quanto, esaurita l’analisi stilistica, ritiene di aver terminato il suo compito, ma è addirittura opposta nel metodo dell’analisi. La critica formalistica pura usa un metodo di analisi piuttosto immobile e tendente a stabilire una serie successiva di «estasi», dove invece il metodo di analisi di quella critica delle forme è quello che tende sempre ad attivare in senso dinamico lo studio delle forme e ad immetterlo proprio nel campo di quel rapporto di cui si è fin  qui parlato.

Di fronte a un romanzo ad esempio – e per restare nell’ordine degli interessi del L. in questo volume – è chiaro come sia di grandissima utilità studiare minutamente il suo prativo modo di essere: dall’analisi sintattica a quella della impostazione dello schema narrativo, del taglio delle scene alla successione degli incastri, all’articolazione eventuale delle varie vicende ecc. ecc., per giungere all’ambiente, alla psicologia dei personaggi ecc. ecc. In questo modo l’opera – se è opera d’arte – si offre con tuta la sua ricchezza alla vita di quel rapporto dialettico con la situazione storica nel campo della indagine critica, e d’altra parte solo così il rapporto può funzionare in senso veramente dialettico e dare tutti i suoi frutti all’indagine critica stessa.

Quando in una critica si ragiona di un’opera d’arte soltanto con determinazioni storiche, si considera erroneamente solo una parte del flusso dinamico del rapporto, trascurando il modo in cui l’opera d’arte rappresenta una realtà con la singolarità della sua espressione. E, d’altra parte, l’errore della critica formalistica appare anch’esso frutto della medesima posizione dogmatica e ferma.

Accennato così a determinate imprecisioni della impostazione teorica della critica del L., riferendosi sia alla confusione che alla scarsità delle sue osservazioni metodologiche, importa ora rilevare che sul piano dell’impostazione pratica della sua critica, il L. talora risente direttamene di quell’incertezza e pertanto riesce ad analisi eccessivamente schematiche e unilaterali, mentre lastre volte il suo innato e profondo gusto di lettore critico cha la meglio su quella incerta posizione teorica, e lo conduce ad analisi pratiche efficacemente compatte e di grande robustezza. Anzi, dovendo fare un bilancio del volume, dobbiamo riconoscere che il secondo caso si verifica con grande frequenza, sempre restando naturalmente l’impostazione generale dei saggi – proprio per quel contrasto – piuttosto priva di una vera organicità di sviluppo, e talora svolta su una successione di singole osservazioni.

Per citare qualche caso di quel prevalere nella indagine di un metodo di analisi scarsamente dialettico, si può rilevare che talvolta, nella ricerca del tono psicologico dei personaggi, il L., più che saggiare il divenire dei personaggi stessi nel corso della narrazione, tende ad astrarre, ragionando su una immagine piuttosto chiusa che del personaggio egli si è composto quasi al di fuori del libro. In questo senso la sua idea del «tipo» - come raggiungimento perfetto dell’arte rappresentativa dei grandi realisti – gli offre evidenti pericoli di irrigidimento, mentre dove essa è considerata in modo dinamico e lasciando tutto lo spazio necessario ai reali movimenti dei personaggi, questa idea è di grande utilità nel campo dei rapporti tra l’opera d’arte e la situazione storica.

I saggi su Balzac sono forse quelli dove maggiormente i personaggi sono considerati in modo piuttosto rigido – e si veda ad esempio l’analisi, o meglio le definizioni dei due personaggi di David e Lucine, definizioni che non si dice siano irragionevoli, ma insufficientemente provate, ma anche altrove si fa rilevare questo inesatto procedimento.

Si può notare la diretta discendenza di questo astrattizzare non considerando a fondo il farsi dei personaggi del romanzo, dall’altra operazione strettiva di analizzare scarsamente il farsi del romanzo stesso, e di entrambi gli errori da quella manchevolezza teorica cui abbiamo precedentemente accennato.

Ma se fino a qui sono stati messi in rilievo quelli che sembravano gli aspetti poco chiari dell’opera di L. in questione, bisogna ora rilevare i passaggi molto frequenti in cui egli riesce a soluzioni critiche senza dubbio molto notevoli.

Anzitutto è da considerare come una grande dote del L. quel suo fondamentale senso umanistico a base progressista (né poteva essere altrimenti) che gli fa assumere sempre, davanti a ogni testo, una posizione quanto mai feconda di interesse «totale», di profonda attenzione ai problemi vitali degli uomini. È questo suo fondamentale atteggiamento ad esempio che gl’impone la decisa presa di posizione in quel problema, che per lui è tra i più importanti, tra quelli presi in esame in questo volume, del passaggio da realismo a naturalismo nel romanzo francese con la seconda metà del secolo XIX, e che gli fa trarre da questo fatto ampie conseguenze critiche nei riguardi di gran parte della letteratura occidentale successiva, alla cui base egli scorge una evidente crisi sociale. È sempre questo suo atteggiamento che gli suggerisce in tutti i problemi, prese di posizione ispirate a una costante fiducia nel superamento di ogni crisi, grazie alla comprensione dell’articolarsi storico delle crisi stesse.

Ma scendendo ad osservare più particolarmente la sua pratica di critica, è importante rilevare che molto spesso egli formula osservazioni piene di forza sulla forma delle opere, osservazioni che attivano profondamente i passaggi esaminati in una vasta funzionalità critica. La sua pratica sapienza di critico e di lettore gli fa in quei punti superare brillantemente certe incertezze della sua teorica.

Si veda per esempio quell’osservazione sugli spostamenti dell’azione tra i diversi ambienti ne «les Paysans» di Balzac, e sulla sua funzionalità a rappresentare una varia vicenda di interessi di classe, e l’altra sul fatto che lo schema essenziale di composizione di «Les illusions perdues» è potentemente plastico nel mostrare due diverse reazioni alla «mostruosità del capitalismo», e tutte le osservazioni sulla trasformazione della casualità in necessità poetica nei grandi testi del realismo balzachiano, e l’osservazione sulla particolare funzionalità della «forma catastrofica» in Balzac ecc., ecc.

Ma dove questi casi di critica delle forme entrano a fondo e in modo anche più ragionato nella compagine del testo critico, e forse nei saggi su Tolstoj e Gorkij. (Il saggio su Dostoevskij è troppo breve e sommario: scritto durante la guerra «per una rivista americana di piccolo formato», valeva forse la pena di svilupparlo per una definizione sull’ambiente cittadino di «Delitto e Castigo»).

E si cedano nel saggio su Tolstoj, tra le altre, le preziose osservazioni sul nesso drammatico che esiste nelle opere del russo tra fatti ambientali e crisi dei personaggi, quelle sul dialogo, e quelle sulle «oscillazioni» psicologiche dei personaggi; e nel saggio su Gorkij le osservazioni sulla sua capacità di analizzare il processo dialettico del formasi della coscienza di classe nei personaggi, e quelle sulla forma novellistica e infine – purtroppo appena accennata – quella storia dello stile di Gorkij studiato in relazione alla sue posizioni umane di rivoluzionario.

E questi pochi esempi dimostrano senz’altro che L. è indubbiamente un «lettore» di classe,e  che la sua opera offre importanti spunti per la fondazione di quella critica cosciente della sua responsabilità che sembra attualmente indispensabile allo stato generale della letteratura. 

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